Scusami, cuore

Ti chiedo scusa, cuore.
Anche se so che non avremmo potuto, e voluto, prendere strade differenti. Perché, anche se la sofferenza e gli errori fanno parte della vita, avrei potuto spaccarti di meno. Avevi il diritto di essere protetto, di non essere sempre gettato oltre questo maledetto ostacolo di cui tutti parlano. Di evitare chilometri inutili, nottate in bianco, risposte mai arrivate, malintesi mai compresi, “no” netti, vedute solo da amico, romanticismo senza speranza, paure e ansie di ogni tipo.
A volte non ci ho davvero potuto fare niente, non è dipeso da me, ma so che mi puoi capire. Avrei una lista infinita di “se” con cui giustificarmi, incolpando il cervello, ma, posso dirti: se non ci fossi stato tu così come sei, muscolo cardiaco imperterrito e perfettamente incastrato tra le mie mille cicatrici, non sarebbe valso neanche un minuto di tutta la mia vita.

Lettera da Braies

Sono tornato tra queste montagne, papà. Ho preso due treni da Bolzano e un bus da Monguelfo per poterci arrivare. Sono venuto qui, dalle montagne e dal lago che, durante i miei anni da adolescente e grandicello, non ho mai sopportato. Perché mi portavano via dagli amici che andavano al mare, dalle ore di sonno e di inutilità che sentivo avrebbero dovuto caratterizzare le mie estati di quei tempi. Sono tornato qui perché, da quando non ci sei più, ho sentito di averti perso. Forse hai scoperto tutte le mie marachelle, forse hai avuto tempo di pensare alle delusioni che ti ho dato. Ma venendo qui, papà, mi sono reso conto che ero io ad essermi perso, ad aver perso tutti e due perché mi sono concentrato su cose stupide ed ero arrabbiato perché non ti riuscivo a sognare. Ma qui, davanti a questo lago, dove le mie lacrime per la tua assenza si mescolano con i colori meravigliosi dell’acqua, ho sentito il tuo calore. E la tua voce che mi chiama per farci una foto o per farci una passeggiata. E ti ho ritrovato papà. E, almeno un po’ , sono certo di aver ritrovato anche me stesso. Lo rifaremo, te lo prometto.

Viva i REM

E mi ritrovo, mentre ascolto i REM che non mi accompagnavano di sera da tantissimo tempo, a scorrere sul pc le foto del loro concerto a Milano ad Assago nel 2005 (si chiamava Filaforum ai tempi, se non ricordo male). Oltre a dimostrare quanto fossi imbarazzante e disagiato da adolescente, con pose al limite delle foto segnaletiche o di gente sotto sequestro che chiede riscatto, mi ricordano quanto fosse stato un regalo incedibile per me. Non mi accompagnò un coetaneo, mio fratello o qualcuno a cui interessasse da pazzi quel gruppo. Mi accompagnò mio padre. Magari era stanco di sentirmi cantare e suonare sempre le loro canzoni e voleva fare una sorta di esorcismo. Ma, la verità, è che lo fece per vedermi felice. E ricordo che non fossi particolarmente meritevole in quel periodo (gli adolescenti non sempre rendono la vita facile). Ma lui era lì, dopo essersi fatto km volontariamente, per regalarmi quel momento. Che non avevo chiesto, ma che mi era piombato da parte sua. E io ero paralizzato durante il concerto, in silenzio religioso quasi in trance, per non perdermi un secondo di quel trio sul palco. Mio padre, invece, ballava e cantava da seduto, mentre io lo zittivo per non distrarmi. Guardando le altre foto con te, papà, mi viene da ridere, pensando a quanto fossi fissato e scemo. E te lo scrivo qui perché so che il blog lo continui a leggere. E mi viene un grande, grandissimo magone, per non aver ballato e cantato con te. Conserverò per sempre quel momento, ricordando di quante cose stupide recriminassi, perché credevo mi fosse tutto dovuto, dimenticando quanto mi era stato dato, solo per vedermi felice. Grazie. E viva i REM!

Fototessera

Quella fototessera che ho tanto cercato, incastrata tra una banconota da 1000 lire con la Montessori faccia a faccia con te, e il biglietto della mia partenza per Milano del 2006.
Mai, come ora, quel reparto cianfrusaglie, è il vano dei miei pensieri più profondi e dei ricordi più belli.

Macigno

Solo tu puoi scalfire questo macigno che ho sul cuore. Ma non è ancora tempo di essere distrutto.

Il potere del mare

Ricordo le lunghe passeggiate sulla battigia, dove tra amici ci si confidavano segreti su problematiche che all’epoca sembravano insormontabili, cotte varie e conflitti da seconda guerra mondiale. Era come se il mare ci ascoltasse, come se le persone che incrociavamo, i bambini che giocavano e la spensieratezza che aveva il tumore della pallina di plastica sulle racchette da mare, rendesse tutti i tuoi problemi delle cose inutili. Ricordo che, mentre camminavamo per chilometri, piano piano ci si inclinava sempre di più verso l’acqua. E adesso, dopo tanti anni, mi chiedo se fosse per la conformazione fisica del territorio o per tutto il peso che dovevamo portare in quelle scarpinate, che poi riversavamo dolcemente nel mare, che per me ha sempre avuto il potere di ascoltare e lavare via ogni preoccupazione. Almeno fino alla prossima onda.

Kenwood o Panasonic

Cosa vuol dire “estate” per me? Potrei dire le peruzze nella borsa frigo, l’anguria più grande della mia faccia. Resistenza estrema al sole e doppi sensi sui vari ghiaccioli.
In realtà, una delle immagini che la rappresenta di più per me, sono io accovacciato davanti allo stereo Kenwood o Panasonic di mio padre mentre perdo interi pomeriggi a registrare canzoni trasmesse alla radio sulle musicassette, che avremmo portato in viaggio con noi.
E in quei viaggi mi sarei sentito fiero di aver contribuito all’atmosfera e al benessere familiare.

Vorrei dirti (per n. E.)

Vorrei dirti che questo nome che porto, e che da bambino mi creava problemi perché poco comune, ormai mi fa gasare tantissimo e si presta ad un’infinità di soprannomi e nomignoli che mi fanno sentire sempre in intimità con le persone. Vorrei dirti che non ho preso più un paninello all’olio dall’ultima volta che siamo andati assieme al forno, proprio quello vicino a quella farmacia, e abbiamo attraversato la città per tornare a casa. Che ricordo quando volevi comprare le bombette ma poi abbiamo capito che non era il caso. Vorrei dirti che ricordo quando rimasi male per la morte del mio anatroccolo ma so che non è stata colpa tua e che gli hai dato degna sepoltura – alla quale porgevo omaggio quando venivo a casa vostra. Guardo le tue foto sorridenti assieme a me vestito da indiano, e vorrei dirti che quella spina messa male non era stata una mia responsabilità. Ricordo che il tuo rimprovero, seppur amorevole, è stata la nostra ultima vera conversazione. E che questa cosa continua a tormentarmi dopo decenni. Ricordo il nostro ultimo sguardo, il tuo volermi parlare a tutti i costi. E nel mio cuore penserò sempre che volessi dirmi che sapevi che non era colpa mia aver messo la spina della luce in modo sbagliato. E mi va bene così.

Ape e Vivaldi

(Non sono riuscito a scriverlo per problemi tecnici e ho dovuto inserirlo come immagine.)

Panino più piccolo

Non so se vi sia mai capitato di tornare indietro nel tempo e immaginarvi esattamente i protagonisti di quel momento. Come se fosse un videogioco e voi avete la visuale del personaggio. Questa mattina mi sono ricordato dei primi giorni di scuola elementare, forse perché i giornali parlano di questo ritorno a scuola problematico. Mi ricordo come mi sentissi navigare sulla sedia e come il banco fosse un’area da proteggere coi gomiti larghi. Mi sono ricordato di quanto sembrassero alte le maestre, sia che fossi seduto sia in piedi. Mi ricordo di quando facevano il caffè con il fornello e la caffettiera, del panino che io mangiavo prima da un lato e poi dall’altro per farlo sembrare sempre più piccolo. La foto di classe sempre in prima fila, le lettere scritte a ripetizione. Le mie prime conquiste con la mano alzata (che per timidezza e paura di sbagliare avrò sollevato un totale di 20 volte nella vita). Il primo migliore amico, con cui ancora sono fortunatamente in contatto. Mio padre che mi accompagnava e mia madre che mi preparava la colazione e si raccomandava di mangiare la merenda. La piazzetta che hanno rinnovato dopo qualche anno dove ci aspettavano i genitori all’uscita. Ricordo quando toccai la spalla di un bambino credendo fosse un mio compagno e mi sbagliai (cosa che mi traumatizzò a tal punto che non lo faccio più neanche ora a meno che non sia sicuro, cioè che si giri ed è proprio quella persona). Ricordo le aule, il direttore della scuola e il caos. Le recite e le canzoni che ancora ricordo adesso (“la compagnia della piccola ecologia“… scusaci Greta T.). I compiti per le vacanze con i libri da leggere, le storie di Tolstoj sugli animali e il Battello a Vapore.
Non ricordo il momento in cui si chiusero i battenti, perché per un bambino il tempo ha un perché tutto suo. Probabilmente non esiste nemmeno e lo subisce dolcemente, sapendo che tutto è normale. Vivendo, andando avanti e non pensando a ciò che è successo ieri. Perché ci sarà tempo per pensarci. Come questa mattina piovosa, in cui magari non ricordo cosa ho mangiato ieri sera ma ho chiuso gli occhi e mi sono messo a giocare coi ricordi di bambino. Che un po’ mi manca e un po’ mi fa ridere. E un po’ lo invidio per la sua capacità di far sembrare il panino più piccolo nella sua mente solo mordendolo ai due lati.

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