Il mio lieto fine – sipario

La ballerina che ballava sulle mie parole, che si muoveva tanto dolcemente quanto con decisione, che respirava la stessa aria e non guardava dov’ero io perché sapeva già che non mi sarei mosso, quella ballerina non sei più tu.
Che invece danzi attorno al mio cuore, con dei passettini lo circondi, senza far rumore, e dolcemente lo fai a pezzi con una spaccata che non avevo mai pensato facesse parte del tuo repertorio.
Non hai nemmeno fatto l’inchino prima di uscire, non hai aspettato gli applausi per lo spettacolo che sei stata – e lo sei stata nonostante tutto.
Sei fuggita.
Ma io, anche se a pezzi, sono riuscito a chiudere il tuo sipario.
Ed è stato il mio lieto fine.

Baci rubati

Baci rubati da un letto a castello
io sulla sedia più alta di casa
tu sul materasso di sopra.
Io che passavo davanti alla mia stanza
mentre tu ti vestivi
e ti vestivi piano
e io passavo tante volte
per prendere cose mai esistite
da stanze inesistenti.
Mi hai preso la mano in treno,
fingevi di dormire
ma io ti amavo davvero.

Macchinetta (quindi straparlo)

Mi sveglio la mattina, ci sei tu a fianco e non voglio far rumore ma ti rigiri e capisco che stai rientrando nel mondo dei vivi comunque. Ti accarezzo i capelli, ti sfioro la mano, con mezzo occhio scruto la tua sottoveste nera ma fermo i pensieri che chissà dove andrebbero. Poi inizio a parlare a macchinetta, non mi fermo, ma che diavolo ho potuto pensare la notte prima tanto da doverlo comunicare con tanta urgenza? E in più odio parlare la mattina e odio dover ascoltare chi parla. Sarà che la notte prima mi sono svegliato, emozionato e non mi sono mai veramente riaddormentato. Avvicino l’orecchio tra la tua narice e il tuo labbro superiore (punto che considero intimo perché per arrivarci bisogna fidarsi e fare un po’ di strada) e ti sento respirare. Mentre faccio tutto questo, mi ricordo che neanche tu sopporti che ti si parli la mattina, che neanche tu hai voglia di parlare e vuoi che il mondo si faccia gli affari tuoi mentre tu scuoti la tua anima e i tuoi sogni che si spargono tra le lenzuola e il cuscino. Mi chiedo come mai non hai protestato, come mai non mi hai cacciato fuori dal letto a calci. Mi chiedi, con la voce da sonno, come mai ho parlato così tanto dato che odio la mattina. E io non lo so, lo so forse, dovrei partire a macchinetta di nuovo per spiegarlo. Arrossisco senza far rumore, ma tu anche se hai gli occhi chiusi, hai le orecchie attente e senti la mia emozione. Raccogliamo assieme i tuoi e i miei sogni sparsi sul letto, li mescoliamo, chiudo gli occhi anche io. E lascio parlare solo il cuore. Lui sa. E anche tu.

In vino brevitas

Eri buona come un vino rosso della migliore annata, dal valore inestimabile. Non mi sono mai chiesto quanti sommelier avessero avvicinato le loro labbra al tuo sapore, l’ho fatto anche io e basta, senza troppe domande o alcuna esperienza nel settore. Eri buona. Veramente buona. Mi sono inebriato, annegando dolcemente. Peccato che il vino rosso mi fa star male. Ma io lo sapevo, eccome se lo sapevo. Ma ti ho voluta lo stesso. Ora mi ritrovo a guardare quella bottiglia con un calice vuoto a fianco passando il dito sul bordo e aspettando che diventi l’aceto con cui condire le macerie di ciò che è stato e poteva essere.

Playlist aggiornata – la ascoltavo mentre scrivevo. Buon ascolto!

Decennale fuori sede (9 settembre)

Tengo in mano questo biglietto che conservo nel portafogli da sempre. Da una vita. Da quello spartiacque. A malapena si leggono il numero del sedile e la data del volo. Quel giorno lo ricordo bene: capelli rasati (perché l’unico che poteva tagliarmi i capelli era il mio barbiere di fiducia da una vita e nessun’altro in terra straniera poteva toccarli, e avevo calcolato che sarebbero durati fino alla prossima discesa), pantaloni bianchi e camicia bianca a maniche corte da sembrare un narcotrafficante. Era una giornata di sole di settembre meridionale. Avevo la fretta di restare e quella di partire. La voglia di novità e nostalgia per qualcosa che non avevo ancora lasciato. Il check in rapido lì davanti a me. Il tempo di salutarsi in privato con la ragazza, raccogliere le lacrime trattenute e conservarle in valigia assieme alle mie che non volevo versare per essere uomo. Le raccomandazioni di mio padre e di mia madre (no, non stiro ancora, mi dispiace). Quell’aeroporto era l’ultimo baluardo della mia gioventù spensierata. Superati i controlli di sicurezza si sarebbe aperto un mondo di incertezza che avevo solo visto in brochure e racconti altrui: il mondo del fuori sede. La speranza che tutto sarebbe cambiato per me andando via ma che tornando sarebbe rimasto tutto uguale, ed effettivamente era così per tanti anni ma non avevo tenuto conto di quanto mi sarei sentito spaesato e fuori posto. Quel ragazzo rapato quasi a zero, con gli occhiali, la mise da Pablo Escobar, il cuore spezzato e la voglia di avventura abita ancora dentro di me. E a volte mi tiene sveglio in qualche frazione di insonnia e mi chiede conto di tutto questo. Mi chiede di fare bilanci che non voglio fare, mi chiede se son felice, se lo rifarei. Ma quel ragazzo che era in aeroporto è partito ormai e ogni tanto guarda ciò che è stato dal finestrino della sua vita. E anche se volare gli fa una paura fottuta, la cintura la slaccia ogni tanto. E nonostante tutte le turbolenze e i rischi di precipitare che ci sono stati, quel pischello continua il suo viaggio col biglietto consumato e il cuore che continua a battere, nostalgico e per fortuna ancora desideroso di avventura.

Ringraziare le persone che ho incontrato in questi dieci anni forse è generico, ma voglio ringraziare chi mi diede la spinta a partire anche se nella mia umanità spesso rinfacciai che fosse stata la scelta sbagliata. Grazie ai miei.20160909_081808

Quasi

Mi avevi quasi fregato quando hai appoggiato la tua testa alla mia spalla e sembrava non volessi che io andassi via. Quando hai riso alle mie battute, mi sei stata così vicina che mi guardavo nei tuoi occhi e respiravo dalle tue narici ed era buono, ti giuro che me l’avevi quasi fatta. Quando hai aspettato con me, hai mangiato con me, mi hai raccontato di te, hai ascoltato e annuito con interesse ai miei racconti mentre rollavi l’ennesima sigaretta. Quanto ci stavo cascando quando sembrava non sapessimo cosa fare con le mani, con gli occhi, con tutto il nostro corpo e non sapevamo cosa dire. Mi hai quasi fregato. Ci ero quasi cascato, ero proprio sul punto di. Sul punto di innamorarmi. Pensa tu se ci avessi creduto veramente, se mi fossi innamorato veramente. Semmai fosse successo, se fossi stata così brava e io così come sono, starei qui a scriverne decidendo di dimenticarti con qualche frase sconnessa. Sembra quasi possibile. Quasi.

Playlist aggiornata 😉 Buon ascolto!

Casa (più di dodici righe)

La casa dove abitavi è il luogo dove sei cresciuto ed è fatto dall’evoluzione dei posti dove prima riuscivi a nasconderti e ora no e quelli che non riuscivi a raggiungere, perché troppo alti e pericolosi, e ora ci arrivi con tuo grande orgoglio di conquista. Il letto a castello, la stanza divisa coi fratelli. Lo studio dove studiavi e facevi anche finta, la stanza dei tuoi dove ti rifugiavi quando avevi un brutto sogno o ti annoiavi. I bagni da occupare a scapito degli altri, da dove urlavi di portarti la carta igienica quando finiva. Le finestre dove ti affacciavi e da dove si affacciavano per darti indicazioni. Ottenere il tuo mazzo di chiavi per quell’universo familiare era importante e ricordo con quanta cura tenevo il mazzo legato al buco della cintura quando andavo in bicicletta da bambino o incastravo nel freno. La casa è fatta dalle persone che ci hanno abitato, ma come puoi dimenticare il corridoio che hai percorso a mille all’ora, le stanze dove entravi in punta di piedi di nascosto, facendo baccano, sbattendo porte. La porta del ripostiglio che usavi per segnare la tua altezza che ad un certo punto si è fermata e neanche stando in punta di piedi potevi più barare. La casa è la cucina dove hai potuto assaggiare di tutto, dove hai sporcato, sei stato imboccato e tornando da scuola tornavi tutto pronto. Il luogo che sceglievi al posto di mangiare fuori. Ma non solo per risparmiare, ma perché era casa. Dove hai fatto merenda tornando dal calcio.
La casa è quella che disegnavi da bambino coi tuoi amici ed esternamente erano tutte uguali: quadrati per il corpo, triangoli per i tetti, finestre regolari. Ma per te non era uguale, la casa era la tua. Intonaco, colore, numero civico che impari a memoria assieme al tuo nome e cognome perché è delle tue generalità.
Il profumo di casa, il profumo dei mobili, che hanno quell’aura di capello bianco come se stessero invecchiando con te, intrisi di ricordi che hanno proprio quell’odore e se chiudi gli occhi ti passa avanti tutto con uno scorrimento lento perché non vuoi che sparisca. Vorresti immergerti in uno di quei ricordi, nei primi passi, tornare indietro nel tempo.
La casa è questo e molto altro. Non posso in poche righe dire cosa sia la casa per me. Quella casa. La casa è fatta dalle persone, ma anche da queste cose materiali che ti ricordano l’immateriale.
Non chiamatemi superficiale per queste mie parole, a meno che non lo pensiate ancora dopo aver toccato la superficie della vostra casa e non riusciste a provare nulla.

Incurata

Rivederti incurata dopo tanto tempo mi ha trasmesso sentimenti contrastanti. Non so se è stato più goffo un tuo eventuale tentativo di ripresentarti nei miei pensieri deboli, dove io ti ricordavo esattamente diversa, oppure il mio tentativo di far finta di niente mentre mettevo la mano sopra la tua per testarmi. Ma poi ho pesato che sapevi che mi avesti incontrato quella sera. Allora la cosa mi ha turbato di nuovo. Mi sono ricordato che sapevi bene che mi piacevi senza fronzoli. Non ricordo alcuna tua uscita senza un minimo di qualcosa . “Solo un pochino qui dai”, me lo dicevi sempre. E io annuivo, in fondo per me era un complimento dirti che eri bella al naturale. Questa sera che ti ho rivista dopo tanto tempo non c’è trucco, ma forse un po’ di inganno verso me stesso mentre provo questi due sentimenti contrastanti: la tristezza per averti vista appassita ma anche un po’ di soddisfazione perché non ci sono io accanto a te da poter incolpare per questo.

Il bigliettino (dieci anni dalla maturità)

A scuola mi piaceva quella che stava al banco davanti. Mai detta una parola. Sai quando gli ormoni a un certo punto ti fanno trovare quei dieci secondi di coraggio? Ecco mi vennero durante un compito in classe. Io e il mio tempismo. “pss,ehi!” Finge di non sentirmi. Le tocco il gomito (wow il gomito di quella che mi piace! ma me ne renderò conto dopo circa 3 mesi). Si volta, ho un bigliettino in mano lei mi fa no con gli occhi, schifata. “No ma non voglio copiare!” La chiamo di nuovo, il docente se ne accorge e mi manda fuori. “Ma io…” Il bigliettino resta sul mio banco assieme alle mie speranze. Lei lo prende (proprio ora). Ecco io non ero in aula, però mi immagino che abbia sorriso e fatto qualcosa di sconsiderato per farsi mandare fuori. Apre la porta e ora la vedo sorridermi. Se non altro potevo interpretarlo come un sì a quanto avevo scritto sul foglietto che mi sbandierava. E fu la prima volta che uscii con lei. Almeno, io la continuo a considerare così.
– ecco il bigliettino:
20160209_001432

Oggi “celebro” i 10 anni dal mio diploma con questo pezzo “scolastico”. Woh!

Citofono

Sono qui a sottolineare l’importanza fondamentale del citofono. Del tuo citofono. Lo vedevo da lontano, dalla curva a gomito e mi intimidiva come se mi stesse giudicando e si schifava per il sudore dopo la salita ripidissima. Mi avvicinavo piano, salivo i gradini e dovevo rispondere alla domanda cruciale: “Chi è?” E chi sono io? Non lo so, sono solo un ragazzo che cerca sua figlia, che vorrebbe uscire con sua figlia, vorrebbe starci per parecchio tempo, ma per adesso mi basterebbe stare per un paio d’ore, per farle capire chi sono e capirlo anche io e capire lei. Sono forse solo un messaggero, non si arrabbi la prego, vorrei porgerle un messaggio. C’è sua figlia per caso? Ci sei? Sei tu? Ti va di scendere, spero che non hai cambiato idea. Sono anche sudato, perdonami. Era una vita che non ti aspettavo, ma eccoti qui e mi va benissimo così. Attendo. Sento dei passi. E così guardo il citofono, che non mi intimorisce come prima, e spero di rivederlo presto.

Playlist aggiornata 😉

Voci precedenti più vecchie Prossimi Articoli più recenti

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: