La prima volta che son venuto a prenderti sotto casa (storia di luna, ansia e primi appuntamenti)

C’era “Kiss Me” dei Sixpence che girava nella mia musicassetta. Nella mia testa, invece, era più una scena del Titanic che commedia romantica.

Guardavo le ombre diestro la tua finestra. Di sbieco, verso lo specchietto, mi passavo sopra la mano sulla barba appena fatta, sperando di non sembrarti carta vetrata al tocco.

Che poi “tocco”… al massimo potevo ambire a un bacio sulla guancia.

L’orologio diceva che ero in anticipo di venti minuti. Potevo fare un giro del quartiere, ma avevo paura di fare tardi. Follia.

Alzai gli occhi alla luna: era spettacolare. Mi chiedevo se fossi il tipo che si lascia ancora sorprendere da queste cose.

Ci conoscevamo da poco ed eravamo usciti solo per coincidenze “comode”: regali ad amici del gruppo. Quella serata l’avevo spacciata per un aperitivo di ringraziamento.

Così, pensavo, avrei abbassato le tue aspettative e la mia ansia da prestazione. Ero nervoso fino al midollo, ma deciso a non farlo vedere.

Poi eri apparsa, con dieci minuti d’anticipo. <Ciao! Aspetta, ma hai qualcosa di diverso dal solito.> dicevi, sfiorandomi il viso prima di prendere il casco. <Un attimo…> avevi aggiunto, toccandomi la spalla, <hai visto che bella la luna stasera?>.

Quello che penso? Che ci sono prime volte in cui ti prepari a recitare una parte: ti fai la barba, ripassi le battute in testa, ti convinci che devi sembrare sicuro, esperto, “grande”. Poi arrivi sotto casa sua, con una canzone troppo romatica nella musicassetta e venti minuti di anticipo addosso. Guardi la sua finestra, ti sistemi allo specchietto, alzi gli occhi alla luna cercando una rassicurazione planetaria.

E scopri che dall’altra parte c’è qualcuno che guarda la stessa luna, sente la stessa elettricità addosso, e la prima cosa che ti dice non è “sei in anticipo” ma “hai visto che bella la luna stasera?”.

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Più ciechi che romantici

Ci trovavamo in mezzo a tante persone, con luci basse e un semibuio studiato per creare atmosfera, che però stava rendendo tutti più ciechi che romantici.
Con un lento che non mi piaceva nemmeno – ma che mi è impossibile dimenticare – e addosso un maglione di 3-4 taglie più grande di me.
Barba da finto ex-sbarbatello, capello corto insensato per quelle temperature.
Sguardo per sembrare misterioso, ma che ti faceva sembrare intronato.

Amici che avrebbero dovuto accompagnarti a casa e invece sparivano chissà dove con chissà chi.

“Ma davvero, loro? Sono sicuro che non hai visto bene, cazzodici”.

Invece è proprio dove e con chi nessuno penserebbe all’amore che l’abbiamo trovato.

Strano a dirsi, quando tutto ormai filava sotto la luce più luminosa dell’universo, ad eccezione di qualche nuvoletta che – erroneamente – ritenevo più Fantozziana che temporalesca, abbiamo mandato tutto a puttane.

Febbre, maledetta febbre

Febbre, maledetta febbre che ti aveva impedito di uscire con me
per una semplice – e credevo innocua – passeggiata come tante altre.
Se avessi lasciato la mia mano, o non l’avessi nemmeno presa,
se non mi fosse balenata l’idea di venirti a trovare,
palesemente sprovvisto di poteri taumaturgici
ma pieno di confusione tardo-adolescenziale,
starei ancora scorrazzando col mio motorino
in cerca di me stesso o di qualcuno con cui prendermela.
Eppure, son felice di essermi schiantato contro di te, mia unica direzione possibile.

Stampino originale (ma allora?)

Sbarazzarsi di me, del ricordo che hai di me, è facile a dirsi e a farsi: ho commesso tanti sbagli, ho più difetti di quanti ne possa avere l’uomo peggiore con cui pensavi di stare insieme. 

Lo so che è così, che ci hai sbattuto la testa mille volte: su quanto avresti voluto che migliorassi, col mio potenziale infinito e mai sfruttato.

Per paura, pigrizia o chissà cosa mi potesse mai passare per la testa che non fosse allineato con il tuo modo di vedere la vita.

Sulle influenze che potevo avere sulla tua gioventù in fiore, brillante di paillette, ricchi premi e cotillon che stonavano con i miei percorsi, che disegnavo ancora come montagne da elettrocardiogramma degne delle abilità artistiche di un bambino dell’asilo.

Sicuramente oggi hai accanto chi è riuscito a entrare nello stampino originale.

Quello che avevi disegnato per me, e in cui non sono mai riuscito a entrare, pur provandoci con compromessi e promesse che si sono rivelate vaghe e deleterie.

A me sta bene avere il record di occasioni sfumate. Perché sono quelle che il tuo cuore – che comanda oltre il tuo cervello e la tua razionalità fasulla – farà fatica a dimenticare.

E quando ti tornerò in mente – anche se con disprezzo – non potrai nascondere il sorriso per quelle poche ma intensissime e ineguagliabili sensazioni che ti ho fatto provare.

E nessuno, al diavolo l’umiltà, potrà mai farti provare.

Ma, allora, se è davvero così: perché sono solo io dei due quello che ricorda ancora?

Automobile sentimentale

Era stato un lungo viaggio, finito da tanto e forse troppo tempo.

Ma era come se non riuscisse a sbarazzarsi dell’automobile con cui l’avevano fatto: la teneva nascosta in garage, sotto quintali di polvere.

Ed era come se non volesse accettare che non esisteva più la marca di benzina con cui fare il pieno.

Si era sempre concessa di sedersi lì dentro, provando ad abbassare i finestrini per far entrare un po’ d’aria nuova nelle loro vite adulte – e forse mature.

Ma la manovella era incastrata. E non c’era elettricità per muoverli automaticamente.

Avrebbe voluto suonare il clacson per avere la sua attenzione, ma non sapeva di non c’entrare più niente con il percorso che lui stava facendo. E non sarebbe stato giusto.

Avrebbe tentato di pulire il parabrezza per vedere più chiaramente cosa poteva riservare il futuro. Anche solo un incontro casuale tra un milione, come era successo a loro, in un posto dove nemmeno voleva trovarsi.

Ma era tutto spento.

Le sarebbe piaciuto girarsi verso il lato passeggero e vederlo accanto, sorridere, mettendo la mano sulla sua mentre cambiava marcia.

Per davvero. E non come le false promesse che gli avevo fatto.

Ma poi si ricordò che, pur avendo la patente, non aveva mai guidato.

E per questo che decise scendere da quella vecchia macchina, abbandonare l’idea di un nuovo viaggio e ammettere ciò che aveva finalmente imparato.

Qualcosa di diverso dal lieto fine cinematografico: continuare ad amare, ma lasciare andare.

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So che non ricorderai

So che non ricorderai di quando eri stesa sul letto e volevi dormire.
Io mi sono avvicinato, ti ho vista con gli occhi chiusi e ho desiderato darti un bacio come nelle favole.
Ma invece sono scappato via, come un bambino.

So che non ricorderai di quando sono tornato una seconda volta. Sembravi ancora addormentata, ma le tue palpebre tremavano leggermente e con un filo di speranza ho creduto che stessi sognando di me.

So che non ricorderai di quando sono tornato una terza volta. Avevi gli occhi aperti, mi guardavi forse per aspettarmi, forse per capire la mia prossima mossa.
Ti ho sussurrato un “Ehi”, con un tono da macho un po’ goffo, e tu – sì, proprio tu – mi hai risposto “Ehi”.

So che non ricorderai che ci siamo guardati. Tu mi hai chiesto: “Che cos’è che vuoi?”, con dei puntini sospensivi che accarezzavano le mie labbra.

E io ti ho baciata, senza scappare.

Forse è stato uno dei baci più belli della mia vita.
E anche se non ricorderai nulla di tutto questo, lasciandolo sbiadire come una cartolina mai inviata, non preoccuparti: fingerò di non farlo anche io. Proprio come adesso.

Un telefono che non posso tenere in mano

Ho avuto un sintomo di colite forte questa sera. Non so cosa ho mangiato. Mi è capitato altre volte negli ultimi due anni, ma non così forte, o almeno non me lo ricordo così forte.
Mi sono messo sul divano, a pancia in giù, come viene insegnato, ma il dolore non passava.
A un certo punto ho chiuso gli occhi e ho detto sottovoce il tuo nome.
Ti ho chiamato, come se tu fossi qui, come se potessi sentirmi, come se fossimo al telefono o su WhatsApp.
Ti ho chiamato. Ho detto: “Papà.”
Ho chiuso gli occhi e, a mano a mano che ti pensavo e ti chiamavo, il dolore è quasi sparito.
Mi sono addormentato, forse cinque o dieci minuti. Un sonno profondo.
Quando mi sono risvegliato, non c’era più il mal di pancia.
Non so come spiegarlo.
Mi dispiacerebbe pensarti come una medicina per i miei problemi, però preferisco pensare che io ti abbia davvero chiamato, in quel momento. Al telefono.
Un telefono che non posso tenere in mano.
Che tu mi abbia risposto. Che mi abbia tranquillizzato con la tua voce, come facevi sempre.
Non voglio dare una spiegazione logica a questa cosa.
Probabilmente, se la chiedessi a qualcuno, me la saprebbe anche dare.
Ma non la voglio.
Voglio solo rispondermi dicendo che, come ho sempre detto, tu ci sei sempre. In qualche modo.

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Io resterò, tu anche.

Io resterò sempre l’irrazionale romantico,
che non si fidava di nessuno ma ti aveva dato il suo cuore senza pensarci.
Tu resterai sempre quella razionale, non per forza calcolatrice,
che ha cercato il primo bacio, sorprendendomi.
Io quello che accelerava,
tu quella che si aggrappava, emozionata.
Io il finto navigato da salvare,
tu la dolce decisa.
Io rimarrò quello della penna,
tu della matita.
Io quello dei giri in tondo,
tu delle linee dritte.
Io di quelle che si scontrano,
tu di quelle parallele.
Io quello geloso,
tu quella che non fa domande.
Io resterò quello che ha distrutto tutto,
tu quella che ha scelto anche per me.
Io occuperò lo spazio di entrambi,
tu non avrai premura di buttarmi fuori.

E, alla fine infinita di questa danza
che faccio ormai tra me e me davanti allo specchio,
in cui ogni tanto mi sembra di vederti – senza cercarti, ma forse volendoti –
io resterò, in silenzio, a scrivere di noi.

Ma tu non leggerai, come hai sempre fatto.

Senza titoli

Ricordo un sms che le mandai, come se fosse una dichiarazione. Nella mia mente contorta doveva essere una dichiarazione d’amore o di intenti. O solo confusione da condividere per trovare una risposta, riversandola verso qualcuno che mi sembrava più concreto e pratico di me. Nell’infinità di canzoni, di autori e di poesie che l’universo mi aveva donato, scelti un pezzo della canzone “Senza titoli” di Samuele Bersani.

“Il caso vuole che io non sia capace di assorbire la tua voce in pace. Non sto bene, oddio mi sento le caviglie in catene”.

Se dovessi fare una sorta di analisi del testo, direi che la prima parte sta rivelando un’ossessione che si sta facendo strada nella testa del presunto innamorato. Il “non sto bene”, una richiesta di malattia al medico di base. Da “oddio” fino alla fine direi che è la richiesta di aiuto di una persona rapita e messa in uno scantinato.

Eppure, devo dire la verità, non credo di aver trovato più un testo che riassumesse meglio quello che provavo per qualcuno come quell’sms che mandati, nella mia totale inesperienza ma piena speranza di fare colpo.

Basta con i raggi di luce dalle serrande

Non so quante volte avrò usato la metafora dei raggi di luce che passano dalla finestra e illuminano il corpo di una donna. Un luogo comune stupendo, a volte sostituito da quello dei raggi della luna, altrettanto poetico. Ma invece io mi ricordo le serrande chiuse per la vergogna di essere visti. Era questa la vera realtà amorosa e romantica dell’amore giovanile. La vera poesia era nel trovare il momento perfetto e capirsi, rubare un momento di intimità cercando di fingere di saperne qualcosa. E capire che non serviva far fina ti essere navigati. Bastavamo noi due, senza che nessuno rompesse le scatole o con un fratello o sorella che facesse da palo. Parlare sottovoce e poi sorridere, a volte mettendosi anche a ridere. Ma non per prendersi in giro o per abbassare la tensione delle prime volte. O forse sì, quest’ultima ci può stare. Era la felicità di sentirsi vivi. E non c’entra niente la gioventù, quando sei giovane non lo sai e te ne sbatti altamente. Nel profondo del cuore di entrambi cercavamo ciò che ci facesse stare bene, e stare bene voleva dire anche quello. Serrande chiuse, luce fioca, panico. E amore. Quello sì, di quelli giovanili e ingenui. Ma di quelli belli, belli davvero.

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