Errore, corretto

Ricordo quando ci siamo scambiati il numero.
In verità, non è stato uno scambio equo: avevo finto di averlo perso, chiedendolo a una nostra amica in comune.

Ma noi ci eravamo già parlati.
E io mi ero già innamorato.

Sapevo benissimo che sarebbe sembrato strano un mio messaggio.
Eppure ci sono momenti talmente assurdi che il coraggio ti viene fuori quasi da solo.

Di solito non sei disposto a fare brutte figure, a metterti in gioco.
Quel giorno sì.

Ricordo quanto avessi pensato al messaggio perfetto:
una mattinata e un pomeriggio interi buttati al vento.
Ripetevo ad alta voce le varie modalità di saluto,
anche se non avresti potuto capirne il tono —
sarebbe stato solo un elenco di parole,
piene di significato per me
e di stranezza per te.

Erano passate quasi dieci ore quando il mio telefono vibrò.
Una notifica.
Numero sconosciuto.

“Ehi… ciao!”

Era lei.

“Mi ha detto Laura che ti ha dato il mio numero sbagliato.
Ho pensato di correggertelo io… :)”

E non era il messaggio che avevo immaginato per ore.
Era molto meglio.

Non sapevo ancora cosa saremmo stati.
Sapevo solo che, da quel momento in poi,
nulla sarebbe rimasto come prima.

E capii che l’amore non arriva sempre con un bacio,
ma anche con un errore,
corretto.

Al tuo “come stai”

risponderò sempre “tutto bene”.

So che non siete abituati a contenuti multimediali, ma ogni tanto va bene uscire dal seminato. Chiaramente il testo è tutto mio, per le immagini mi sono affidato al web dopo un’affannata ricerca tra mille fonti e scarse skills di montaggio. Per la voce, beh, trucchi del mestiere 😉

PS non so per quale motivo, quando si preme play, non sempre il video parte dall’inizio. In caso scorrete la barra tutta a sx. All’inizio c’è il titolo, non potete sbagliare 🙂


Così semplice (se non fosse per me)

Sarebbe così semplice spiegarti tutto. Fatelo capire senza sottintesi. Guardarti negli occhi, invece di arrossire dietro a una battuta idiota.

Ricevere i tuoi complimenti per la mia simpatia e risponderti con un “anche tu non sei male”, quando vorrei disrti che sei il bene. Anzi: il mio benissimo.

Imparare canzoni che posti sui social solo per canticchiarle in tua presenza anche se non sono il mio genere.

Allungare il rientro a casa per stare con te in metro, assaporare i tuoi silenzi mentre guardi fuori dal finestrino.

Sarebbe così semplice. Ho preparato mille lettere, quattrocento bigliettini, fatto prove davanti allo specchio.

Così semplice dirtelo in aeropoto, mentre stai per partire. Sperare in una scena da film dove ti fermi, mi insulti, magari mi schiaffeggi, ma resti.

Invece sto zitto, ti giri, sorridi. Io ti saluto. Tu non ti muovi. Continuo a salutare e mi maledico.

Poi torni. Ma non sei sola. E mentre mi presenti il tuo ragazzo, capisco che di tutto questo lui non sa niente. Ma non è colpa sua.

Torno da solo in metro. Guardo fuori dal finestrino senza te. Prendo il telefono per scriverti.

Non so cosa.

Mi dico che è così che doveva andare: così semplice, per gente complicata come me.

La prima volta che son venuto a prenderti sotto casa (storia di luna, ansia e primi appuntamenti)

C’era “Kiss Me” dei Sixpence che girava nella mia musicassetta. Nella mia testa, invece, era più una scena del Titanic che commedia romantica.

Guardavo le ombre diestro la tua finestra. Di sbieco, verso lo specchietto, mi passavo sopra la mano sulla barba appena fatta, sperando di non sembrarti carta vetrata al tocco.

Che poi “tocco”… al massimo potevo ambire a un bacio sulla guancia.

L’orologio diceva che ero in anticipo di venti minuti. Potevo fare un giro del quartiere, ma avevo paura di fare tardi. Follia.

Alzai gli occhi alla luna: era spettacolare. Mi chiedevo se fossi il tipo che si lascia ancora sorprendere da queste cose.

Ci conoscevamo da poco ed eravamo usciti solo per coincidenze “comode”: regali ad amici del gruppo. Quella serata l’avevo spacciata per un aperitivo di ringraziamento.

Così, pensavo, avrei abbassato le tue aspettative e la mia ansia da prestazione. Ero nervoso fino al midollo, ma deciso a non farlo vedere.

Poi eri apparsa, con dieci minuti d’anticipo. <Ciao! Aspetta, ma hai qualcosa di diverso dal solito.> dicevi, sfiorandomi il viso prima di prendere il casco. <Un attimo…> avevi aggiunto, toccandomi la spalla, <hai visto che bella la luna stasera?>.

Quello che penso? Che ci sono prime volte in cui ti prepari a recitare una parte: ti fai la barba, ripassi le battute in testa, ti convinci che devi sembrare sicuro, esperto, “grande”. Poi arrivi sotto casa sua, con una canzone troppo romatica nella musicassetta e venti minuti di anticipo addosso. Guardi la sua finestra, ti sistemi allo specchietto, alzi gli occhi alla luna cercando una rassicurazione planetaria.

E scopri che dall’altra parte c’è qualcuno che guarda la stessa luna, sente la stessa elettricità addosso, e la prima cosa che ti dice non è “sei in anticipo” ma “hai visto che bella la luna stasera?”.

Playlist aggiornata 🙂

Feeling this (Blink)

Ero venuto a prenderti per andare a una festa.
Tu mi piacevi già un casino, ma tu non lo sapevi.
O almeno io ero convinto, come al solito, che nessuno mi capisse davvero.

Sul bus ci sediamo uno accanto all’altra.
Io ho le mie cuffiette col filo, non quelle fighe bluetooth.
Da giorni mi porto nello zaino uno sdoppiatore che ho trovato per caso in un negozio,
e un paio di auricolari “in più” che in realtà ho comprato apposta per te.

Mi chiedi: «Cosa stavi ascoltando?».
Subito mi vergogno: tu sei il tipo da Guccini, Vecchioni.
Io stavo ascoltando i Blink, quelli che mi hanno salvato le giornate chiuso in camera.
Così farfuglio: «No, niente di che… lascia stare».

Tu insisti.
Io tiro fuori lo sdoppiatore, e tu ridi: «Ma che cos’è ‘sto aggeggio? Dammi la tua cuffia e basta».

Allora la prendo, la guardo per vedere se c’è anche solo un granello di polvere.
Le mani sudate, le paranoie a mille.
Te la porgo con mille premesse:
«Non so se ti piace… è una cosa un po’ adolescenziale…»
Tu mi sorridi: «Fammi sentire».

Per tutto il tragitto restiamo così.
Spalla contro spalla, a guardare fuori dal finestrino,
la testa che ondeggia appena a tempo con la musica.
Il tuo sorriso è quasi impercettibile, ma io lo vedo chiarissimo.

A un certo punto mi prendi la mano e la stringi.
«Ma non dovevamo scendere quattro fermate fa per la festa?» mi chiedi.
Io ti guardo e ti rispondo:
«Sei tu che guardavi fuori dal finestrino… perché non me l’hai detto?».

Non mi lasci la mano.
E noi, invece di tornare indietro, continuiamo il viaggio.

Playlist aggiornata 🙂

Io della biologia non c’ho capito un…

Ho sempre pensato che gli spazi, gli incavi e le intercapedini dei nostri corpi fossero fatte per combaciare. Un’immagine usata e abusata da scrittori, cantanti e artisti di vario genere.

Io ci trovavo qualcosa di fisiologico, al limite della conservazione della specie. Delle nostre due entità che, per sopravvivere, non avrebbero potuto fare a meno l’una dell’altra.

Che per poter resistere ad altri ambienti, climi, faune e flore, avrebbero dovuto compiere un salto quantico di spazio e tempo. Impossibile, irreplicabile.

Mi sentivo in una botte di ferro.

Ero convinto di questo.

Io l’ape e tu il mio unico fiore da custodire, sfidando le leggi della natura che sminuiscono ciò che proviamo.
Tu un atomo al centro del mio universo e io l’elettrone negativo ma felice che gli gira intorno, fino al rincoglionimento totale.

Credimi, nel mio essere incomprensibile, ho cercato di mostrarti e dimostrarti che ero quello giusto.

Che del mondo e delle sue leggi ce ne potevamo fregare.
Che, sì, c’è da soffrire, ma insieme non ci batteva nessuno.

Ma io, della biologia, evidentemente, non c’ho mai capito un cazzo.
O forse tu, questo gioco e le sue regole, le hai capite fin troppo bene.

Scusa, devo rispondere

Racconto sempre ridendo di noi due, solleticando il mio spirito tra battute e imprecisioni per impressionare sempre di più.
Non biasimarmi: giuro che le modifiche non danno più credito a me che a te.
Anzi: punto sempre sul mio non essere molto sveglio in termini di conquista.
Se cavalco l’onda dei bei ricordi con battute, vocine e imitazioni, l’espressione della gente si fa sempre stranita quando mi interrompo all’improvviso.

Ed è sempre nello stesso identico punto, sempre allo stesso identico modo.
E lì no, non c’è alcuna sbavatura o figura retorica.
Non ho un copione, la realtà non ne ha bisogno.

Davanti a me si palesa sempre l’atmosfera del “ma cosa è successo?”, “cosa hai combinato?”.

Quando arriva quel momento, chiedo scusa perché c’è il mio telefono che squilla e devo necessariamente rispondere.

Per fortuna soltanto tu sai che non ho mai avuto una suoneria.

Spoiler 2.0, beh

Mi sono fatto prendere il cuore, più che la mano.
Lo so, mi dispiace, ho sempre creduto che l’amore, quello vero, dovesse essere struggente.
Che la noia fosse una nemica, che i porti sicuri avrebbero fatto allontanare le tue navi per cercare avventure più interessanti.
Ma tu non mi hai mai chiesto questo: solo di guidare il timone insieme fuori dalle tempeste, non di stanarle per dimostrare che potevamo resistere anche quando non ce n’era bisogno.

Spoiler: io sono rimasto ancora sullo scoglio dove ci siamo sfracellati, senza cannocchiale né mappe per tornare.

Mentre tu – spoiler 2.0 – beh, sei approdata altrove, senza voltarti.

Cuori su piatti d’argento

Ho affrontato tante prove che riguardavano noi due.

La più facile? Potrei dire odiarti, ma sarebbe banale
La più difficile? Mentirei dicendo che è stata dimenticarmi di te.

Ma se chiudo gli scuri degli sguardi altrui,
di ciò che ci si aspetta dopo tutta la vita
che mi è passata davanti,
delle prospettive sperate
e dei cuori che ci sono stati offerti
su piatti d’argento,
vuoi davvero che ti dica la verità?

Sì, è così.

E non posso,
e non voglio,
farne a meno.

Ma questo già (non) lo sai.

Non stupiamoci

Non ti ho nascosta ai venti d’autunno
e con spavalderia ci siamo bruciati e consumati d’estate.
Aggiungici che d’inverno non ti sei stretta a me quando ti si gelava il cuore:
non stupiamoci se in primavera non siamo più rifioriti.

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